Massimiliano Pelletti
2022
.Il tempo

Questa fase della vita, forse della mia soltanto, chiede di considerare il tempo trascorso e quello che magari giungerà domani. Talvolta, pensando alle sorti dei congiunti - e più o soprattutto di mia figlia - cresce un nodo che strozza all’altezza dello sterno, con quell’incerta angoscia che puzza di egoismo ben celato. Resistono, poi, lunghe pause di attesa fra un malessere e l’altro che potrei definire stati d’inquietudine impermanente, brevi ma intensi, come folate di vento che smuovono i canneti ai bordi degli acquitrini. Si sta come sapendo di aver perduto la giovinezza, magari di non averla approcciata con la giusta astuzia; ci si trova invischiati in quel periodo che vige nei ricordi adolescenziali e nei cenni remoti dei genitori, quando a loro toccò la stessa età, le stesse dedizioni, gli stessi pensieri del mio adesso. Con una certa dolcezza, così, volgo il sorriso alle spalle, perdonando gli errori, loro miei nostri, almeno sperando di abbandonare gli schemi e gli imprevisti già vissuti, già detti, già dapprincipio accantonati. Una faccenda ciclica, che torna, che ripete i suoi dati, che scema e divampa come l’incendio o si placa come la passione svogliata. Una faccenda stagionale, e mi pare che si attenda quel lampo risolutivo in cui ogni cosa diviene propizia per offrire una possibilità differente, una scintilla del cambiamento.

Il tempo della scultura di tradizione, nelle sue propaggini anche innovate, si spense sul finire degli anni Sessanta con la polemica poverista e performativa, entrando in stallo il sostrato stesso che ne distingueva la forma, quindi col sacrificio ideologico del materiale classico, in virtù di una pretesa revoca linguistica. Un ventennio dopo, pochi artisti compresero l’urgenza di trasformare l’atto di crisi in rivoluzione, aprirono al multilinguismo per un recupero non teorico ma qualitativo dell’arte, sfruttando cioè il medium come ipotesi di alfabeto e non ragionamento estetico; ciò non vuol dire indugiare verso il meticciato indistinto delle sottoculture, bensì porre al centro della disputa il tema identitario scevro dai divieti categorici. Quello che occorse in parallelo alla rinegoziazione speculativa degli anni Settanta, fu la difesa chiusa di alcune indagini realiste, insieme allo sviluppo di una controcultura classicista intenta a ridefinire i canoni grammaticali, distorcendo il passato in una sorta di deroga - in ritardo - rispetto agli exploit del secolo precedente. Non è la prima volta che la lusinga della classicità decade da luogo d’ispirazione a replica meccanica svuotata di valore, tanto da condurre alcuni a imboccare un vicolo cieco in cui la riproducibilità ingaggia il modello di un assemblaggio elegante però, a lungo andare, sterile giacchè autarchico.

In questo tempo che giunge come onda allungata sul bagnasciuga di fine Novecento, si attende. Dovrà, in qualche istante, rompersi il perimetro che ci costringe all’impasse, nel suo atrofizzato gigantismo per cui il concetto salva l’esecuzione, o l’esecuzione costa alla stregua di concetto. Sul limite di tale recinto serrato si ascolta la voce nuova di una necessità, più che del suo compimento. Immagino sia per questo che Massimiliano Pelletti abbia cominciato a recuperare i gesti del nonno scultore, aggirandosi fra i modelli di gesso serviti per le copie, edificando quella sua Sacra privata in cui i romani deponevano l’altare dei penati e dei mani, degli eroi e degli dei. Questa frapposizione filosofica che porta a lavorare sfruttando i calchi antichi di originali classici, come se l’intermediario fungesse da epidermide per i lavori odierni, pone da un lato un filtro di distacco, ma dall’altro esaspera il proposito che non vuole assecondare o estinguere, anzi ricostruire. Quando nel 1953 Robert Rauschenberg realizzò Erased de Kooning Drawing, cancellando appunto il disegno di uno dei padri dell’espressionismo astratto, mosse da scopi celebrativi nell’ottica di ri-fondare l’edificio artistico pur poggiando su una base accreditata. Similmente, Pelletti esercita un’inversione della metodologia scultoria approntando la replica dell’esemplare di mezzo, infine decostruito e riassemblato. L’interesse per gli elementi naturali inserisce l’ulteriore principio d’indeterminatezza discostando dal frangente di pieno controllo e obiettività. D’altronde, servirsi di composti imperfetti - in sè travalicati dall’usura precipua - rende unico il risultato e impossibile il rifacimento tecnologico, spezzando di fatto la filiera che dal paradigma primigenio arriva, nel correre dei secoli, allo studio di Pelletti. 

Questa condotta definisce la chiusura volontaria di un tempo. Si tratta di ricongiungere il sapere dell’artigiano, ormai ridotto ad attributo secondario, con la consapevolezza di una riforma - anche - debitoria del portato restituito al dibattito sull’arte da parte delle avanguardie del secondo Novecento. L’accuratezza con cui Pelletti sceglie le pietre, o più in generale i materiali, accostandoli secondo parametri di affinità o contrasto, come atto liberatorio e assoluto, si contrappone all’obbligo di un’alfabetizzazione delle immagini, scegliendo cioè quelle che per suono e accumuli rimandano agli aspetti primari della nostra cultura. Vi è in questo la sua personale presa di coscienza circa i limiti e i permessi che lo spirito della nostra epoca ammette, anticipando forse la riformulazione dei canoni e delle strutture a venire: servono le pagine bianche da cui sono tolti i segni che le riempivano, serve una loro stretta memoria.

Sono le ferite, i traumi, le cicatrici: questo è il tempo che abbiamo percorso. A mia figlia ho fatto intendere che le tracce di una sutura sull’avambraccio sinistro siano conseguenza dei denti di un leone, affrontato nella giungla. Ci crede perchè il suo unico impegno è fidarsi della vita, perchè le vicende di un eroe contano persino trascurandone la veridicità. Le sculture tronche, tagliate, lacerate di Pelletti non rimpiazzano i monconi dipesi dagli schianti, dai seppellimenti e disseppellimenti, dalle mutilazioni della guerra, della critica, della religione e di chissà cos’altro. Quando Michelangelo si oppose al restauro del Torso del Belvedere, o quando Antonio Canova rifiutò di toccare i lacerti del Partenone, ammisero l’alternativa di uno sguardo inedito inebriato da una bellezza assente; qualcosa di solo desiderato nel suo splendore primario, qualcosa da assaporare insieme alla nostalgia e a un fremito d’invidia - come capita ascoltando gli aneddoti rilevanti cui si fu, giocoforza, esclusi. Eppure: eppure nel difetto scaturisce la forza disperata che sbaraglia e rende più intimi gli altri e la loro avventura riguardo alla nostra intima percezione. Pelletti specifica nel particolare imperfetto e nell’usura il registro del suo intervento, presupponendo che i reperti individuati abbiano in sè qualità iconografica a prescindere da un nuovo ordine di senso suppletivo. L’importanza di un oggetto è nelle sue parole mute. Sussurrano le architetture migliori, dicono a bassa voce i capolavori, gridano gli incerti con la sfrontatezza degli scarsi risultati. La responsabilità dell’arte si avverte quando ammonisce con tenacia attraverso la propria presenza. Talvolta dimentichiamo quanto ”esserci” valga come esercizio di pensiero costruito intorno a una sperimentazione, agli incontri e tutto quello che ne concerne. I miti raccontano, nella sintesi di un archetipo, le sfaccettature della nostra biografia, e da essi Pelletti riflette proprio intorno al nostro esserci, alla nostra identità che - pur immutevole - è simile a quella dei nostri antenati. Sceglierne le leggende significa scavare fra le radici di episodi che si ripetono da una generazione all’altra, nelle loro piccole varianti, benchè fedeli a un modello reiterato. Una copia della copia della copia della copia, la cui origine si perde nei meandri della nostra intelligenza. Pelletti segue questo sentiero per balzare in avanti: usa Giove, che è Zeus, che prima a Babilonia fu Marduk (il cui vigore si dice insidiò Tiamat, la sposa di Apsù) e così potrebbe continuare à rebours fino a ciò che Mircea Eliade tentava di reperire (invano) quale scintilla dei primordi. Il pretesto di una tematica non è esercizio di gusto o di eleganza compositiva, piuttosto un pensiero sulla scultura, come parte riflessiva da travalicare. 

Ci vuole il giusto tempo, e noi ci giriamo attorno. I greci avevano termini differenti per definirlo rispetto alle declinazioni quantitative o qualitative. Mentre il dio Kronos ne rappresentava la condizione cronologica e misurabile, Kairos testimoniava il donarsi epifanico e propizio, lo speciale accadere. Se a prima vista entrambi non trovano posto nel pantheon di Pelletti, in verità essi ne sono un aggregato costante poichè basilari in ogni episodio creativo: pur mancando il rimando iconografico, essi determinano lo sforzo dell’autore di raggiungere il giusto momento in cui ogni parte, ogni concetto, è dato nella sua sintesi perfetta e, in essa, convive tutto il resto. Rispetto ad altre fasi del suo lavoro, quest’ultima evidenzia il pervenire a una pervicace pulizia teorica, deponendo qualsiasi parentesi ironica o di sovra-pensiero. Rimane, difatti, la consapevolezza di poter rintracciare quell’esatto istante in cui ogni pezzo si riduce a nucleo eloquente dunque complementare. L’equilibrio si offre come carpe diem che nulla chiede oltre, nulla concede in più, accettando nel contempo il caso, o il destino, come ultima componente partecipata.

Il tempo propizio è quando ciò che era non è più e quello che sarà ancora non è: in questa pausa si mostra chi siamo. Ugualmente le sculture di Pelletti nascono con l’intento di assommare versi distintivi in un elaborato che modera ogni parte dentro un’unica entità formale. Se negli ultimi decenni la scultura cerca nello spazio d’intorno un allargamento di significato, qui si torna alla contrazione intrinseca dell’oggetto-parlante, contro le dinamiche iniziate sul finire degli anni Sessanta, però nell’ottica di restituire all’opera il suo spazio di accadimento. Questa fase conclusiva del lungo camminare della storia ha risolto ormai buona parte delle sue tensioni, aspetta di sfondare in una rinnovata circostanza esplorativa. Questa fase della nostra vita è un’attesa, la dimostrazione di una buona fiducia, muovendo sui confini diruti di un fortino ormai indebolito e stanco, ciò nonostante pronto al tempo nuovo, ciò nonostante parte di questo tempo nuovo. 

Flavio Arensi

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