Massimiliano Pelletti, l’ultimo scultore ellenistico
Le statue greche classiche ed ellenistiche hanno una lunga vita. Scolpite a partire dal V secolo a.C. per i santuari o gli spazi pubblici, sono state spesso spostate, riallestite, danneggiate e riparate, prima di essere trafugate, portate in Italia, oppure distrutte, fuse per recuperare il metallo – per quelle in bronzo – o frammentate e magari finite nelle calcare – per quelle in marmo. Gli archeologi e gli storici dell’arte antica ritrovano tutte le tracce concrete di questa travagliata storia, dettagli che permettono di ricostruire delle storie di artigiani, di committenti, di sacerdoti, di soldati, e delle varie persone che hanno accompagnato le sculture per secoli, prima di essere state definitivamente seppellite e dimenticate.
Nel frattempo, altri artisti le hanno copiate e riprodotte. Spesso le hanno trasferite in un altro materiale, dal bronzo al marmo in particolare, generando delle esigenze tecniche diverse – che hanno necessitato per esempio l’aggiunta di puntelli a forma di tronchi d’albero o di pilastrini. Le copie erano a grandezza «naturale», cioè alla stessa scala dell’originale copiato. Oppure erano delle riduzioni. Il Museo Nazionale Romano conserva per esempio una serie di copie in marmo di età romana imperiale dell’Afrodite di Cnido, un capolavoro in bronzo concepito e prodotto dal grande scultore Prassitele, nel IV secolo a.C., per il famoso santuario della dea, sito in quella città del sud ovest dell’Asia Minore. Alcune sono di grandi dimensioni, altre invece più piccole, potevano ornare un giardino, o anche, per gli esemplari miniaturistici, essere poggiate sugli arredi lussuosi delle sale da banchetto. A partire dalla fine dell’epoca ellenistica, nel II e I secolo a.C., l’uso dei marmi colorati e delle pietre semipreziose si diffonde nel mondo romano. Compaiono quindi delle statuine in alabastro, magari dipinte, in cristallo di rocca, in basalto, in marmor numidicum con inclusioni gialle proveniente dalle cave di Chemtu nell’attuale Tunisia.
Le copie – realizzate direttamente a partire dagli originali oppure a partire da calchi in gesso che cominciavano già a circolare nel Mediterraneo romano – anche se di altissima qualità, non riproducono mai fedelmente l’originale. La resa dell’anatomia segue i nuovi canoni delle varie epoche in cui gli scultori lavorano. Per ragioni estetiche o religiose, l’atteggiamento del corpo o l’espressione del viso si trasformano, come nel caso delle versioni ellenistiche dell’Afrodite di Cnido, il cui sguardo non è più rivolto verso lo spettatore ma si perde verso l’orizzonte. I nuovi artisti modificano più profondamente i modelli, fino a crearne di nuovi, che ricordano solo in modo generico la statua originaria. Mescolano diversi modelli, diversi stili, creano dei gruppi eterocliti che assumono una nuova coerenza estetica che contrassegna l’epoca del «copista» e non più quella dell’antico scultore: statue arcaicizzanti, classicheggianti, veri compendi di tutti gli stili precedenti della grande scultura.
Inizia anche l’epoca delle collezioni. Si chiede agli scultori di riprodurre una parte dei capolavori antichi: la testa, il busto, magari inserito su un pilastrino – l’erma – che poteva facilmente essere collocato in un cortile, in un giardino, attorno ad una fontana. La collezione Ludovisi comprendeva per esempio un pilastro ermaico la cui parte superiore corrispondeva al corpo di un lanciatore di disco che, alla fine dell’epoca ellenistica o all’inizio del periodo imperiale, riproduceva parzialmente il modello di un originale magnogreco del secondo quarto del V secolo a.C. attribuito al grande scultore Pitagora di Reggio.
Poi viene l’abbandono: le opere antiche perdono i loro colori, si frantumano, si disperdono. Nei relitti, come quelli di Mahdia in Tunisia e di Anticitera in Grecia, il marmo si consuma, si copre di buchi e ritrova uno stato per così dire ‘naturale’. Anche nel Tevere, le grandi statue dell’antichità, come l’Apollo monumentale, ritrovato in frammenti e ricomposto malgrado la corrosione di superficie, acquisiscono una patina inconfondibile che conferisce loro spontaneamente l’aspetto di opere d’arte contemporanee.
Dopo un lungo periodo di oblio, la scultura antica riemerge dal sottosuolo di Roma e dai grandi centri antichi del Mediterraneo: accanto ai capolavori in gran parte integri, come il Laocoonte, l’Ares Ludovisi o il Discobolo Massimo-Lancellotti, si trovano tante statue frammentarie, acefale, senza braccia, mutile, ed anche moltissimi frammenti che vengono recuperati per completarle. Comincia un lungo processo di raccolta, di restauro, di completamento delle sculture portate alla luce dagli scavatori. Nuovi scultori completano le opere frammentarie, vi aggiungono dei pezzi provenienti da altre statue, oppure scolpiscono i pezzi mancanti, seguendo uno stile antico oppure conservando lo stile dell’epoca – come era solito fare Alessandro Algardi nella prima metà del Settecento per alcune opere della collezione Ludovisi. In questi casi, si utilizzava il marmo proveniente dalle nuove cave, scoperte in età moderna in varie località della penisola italiana.
Queste opere moderne, create a partire da copie antiche di originali greci classici ed ellenistici scomparsi ma tramandati dagli artisti di epoca romana, che ne avevano in parte tradito lo stile originario, divennero presto i nuovi modelli del classicismo: disegnati da pittori e incisori; riprodotti in gesso e portati nelle varie calcoteche delle grandi capitali europee, dove servivano da modelli per far esercitare nel disegno i giovani artisti delle Accademie di Belle Arti; opere riprodotte in marmo, a grandezza naturale o in versioni ridotte… La storia ricomincia e un’altra tappa si aggiunge al percorso già lungo e complesso delle sculture antiche.
A partire dalla fine del XVIII secolo si sviluppa un nuovo discorso scientifico sulla scultura greca, iniziato da Johann Joachim Winckelmann. Si ricerca la purezza degli originali greci, si crea un accademismo di una scultura classica come ferma al tempo di Pericle e di Alessandro Magno. In alcuni grandi musei europei, dopo la seconda guerra mondiale, la ricerca dell’autenticità antica si manifesta nel fatto di togliere le aggiunte moderne per ritrovare l’aspetto originario delle opere. Man mano, si tende a cancellare la ricchezza della storia delle statue antiche, tutti gli interventi delle generazioni di artisti che le avevano modificate, reinterpretate, trasformate, per renderle sempre moderne e adatte alle esigenze estetiche e ideologiche del tempo.
L’abbandono del gusto artistico per gli interventi moderni sulle opere antiche, che era sempre esistito, ha accelerato un progressivo processo di disinteresse degli scultori per l’arte classica, che è anche corrisposto alla scoperta della potenza creatrice delle arti extraeuropee nonché di quelle non classiche dell’Antichità: l’Antichità anticlassica dell’arte preistorica, celtica, italica, scitica, apprezzata in particolare dai surrealisti. Gli artisti contemporanei si sono allontanati dalla scultura classica e tante collezioni di gessi e di copie dall’antico sono state dimenticate nei magazzini e nelle cantine delle Accademie di Belle Arti.
Poi, a partire dagli anni ’70, archeologi e storici dell’arte hanno cominciato a ricostruire pazientemente la complessità e la profondità temporale della storia della scultura greca, ripercorrendo all’indietro tutte le tappe che abbiamo brevemente ricordato: l’instancabile curiosità degli artisti del Grand Tour del Settecento e dell’Ottocento, la modernità dei collezionisti del Cinquecento e del Seicento, la qualità innovativa degli scultori romani di età tardorepubblicana, augustea e imperiale, l’inventività degli artisti ellenistici del III e II secolo a.C. e infine l’assoluta novità delle ricerche formali e tecniche dei maestri greci classici del V e IV secolo a.C.
Negli ultimi anni, la riscoperta della grande modernità della scultura classica e dell’originale complessità della sua trasmissione fino ai giorni nostri ha senz’altro incuriosito gli artisti contemporanei, che vi hanno trovato nuove fonti di ispirazione.
L’opera di Massimiliano Pelletti è indubbiamente una delle espressioni più interessanti di questa nuova tendenza artistica che si potrebbe definire come ‘classicismo anticlassico’. Utilizza in realtà tutte le potenzialità offerte dalla scultura antica, ma considerandola come risultato delle molteplici sfumature acquisite in più di due millenni e mezzo di storia. Si basa prima di tutto su una tecnica scultorea di estrema qualità, che evoca sia quella dei grandi maestri dell’antichità, sia quella degli artisti del Grand Tour, autori delle migliori repliche moderne dei capolavori antichi. È frutto di una lunga tradizione di famiglia, inserita nell’eccezionale contesto artigianale locale, le cui origini risalgono all’interesse di Michelangelo per le cave di marmo del posto. La grande curiosità intellettuale, la rimarchevole disciplina tecnica ed il rigore personale hanno completato il percorso di Pelletti, che ha potuto trasmutare una pratica artigianale eccellente in un percorso artistico innovativo.
L’originalità della sua produzione risiede nella scelta dei materiali utilizzati per le sue sculture. In questo, Pelletti si ispira a una tradizione risalente all’epoca tardo-ellenistica (III-I sec. a.C.) nella quale gli scultori si sbizzarriscono a scegliere delle pietre rare, esotiche, provenienti dalle nuove cave, per creare opere originali e anche per riprodurre capolavori più antichi: alabastro egizio, onice, sardonice, marmi colorati, come quello delle cave di Chemtu nell’attuale Tunisia, cristallo di rocca, provenienti dalle periferie del mondo greco di Alessandro Magno e poi dell’Impero romano. Nello stesso spirito di curiosità nei confronti delle materie preziose provenienti dai ‘confini del mondo’, Pelletti ha espanso considerevolmente il raggio di raccolta delle pietre da lui scolpite, che provengono anche dal Sudamerica e da varie regioni dell’Asia. Inventa pure delle pietre nuove, a metà naturali e a metà artificiali, fatte da lamine litiche incollate tra di loro.
Ovviamente, nessuno scultore antico avrebbe scelto i blocchi a cui lui invece si affeziona particolarmente: quelli con tanti difetti, con buchi pieni di concrezioni, con fessure visibili ed invadenti, con eterogeneità materiche e cromatiche. Oltre al gusto per queste pietre fuori norma, a Pelletti piace particolarmente la sfida di scolpire dei materiali mai lavorati prima di lui, che richiedono competenze e qualità tecniche eccezionali ed un forte senso d’adattamento alle imperfezioni del materiale. Una sfida che fa rivivere una tradizione prettamente antica dell’agôn artistico, cioè la competizione tra maestri per creare un’opera mai vista prima e quindi degna di essere ricordata. Quando l’artista ricrea un pezzo del discobolo di Mirone con una pietra rosa macchiata da inclusioni nere, si inserisce in qualche modo in un lignaggio millenario di scultori che hanno affrontato lo stesso tema, con approcci artistici ad ogni volta rinnovati.
L’uso di pietre imperfette ed il gusto di scolpire non sempre l’opera intera ma solo un frammento di figura, una mezza testa, un corpo incompleto, conferiscono alle sue opere una temporalità molto particolare, che le rende particolarmente affascinanti. Spesso sembra che siano uscite dal mare e che le loro finte imperfezioni provengano da un lungo soggiorno tra sabbia e acqua, nella stiva di una nave… inesistente. Le sculture di Pelletti evocano quelle rinvenute nei relitti delle navi che portavano dalla Grecia all’Italia tutto ciò che serviva per arredare le ville aristocratiche e per ornarne i giardini. Nei relitti tardo-ellenistici di Anticitera in Grecia e di Mahdia in Tunisia (alla fine del II o all’inizio del I secolo a.C.), le statue di marmo presentano questo duplice aspetto in parte perfetto del marmo antico, in parte completamente rovinato, con la pietra attaccata dall’acqua salata, dalle alghe e da altri organismi marini. È il contrasto tra l’ideale bellezza del corpo classico pietrificato nell’istante della sua perfezione e la sua definitiva corrosione che trasforma queste statue antiche in opere decisamente contemporanee.
Ma allo stesso tempo le opere di Pelletti hanno l’aspetto non completamente finito delle sculture abbandonate a metà da un artista che si sarebbe accorto troppo tardi di un difetto interno e irrimediabile del marmo. Temporalità doppia quindi di una statua che, pur ancora in corso di produzione, sembra aver subito gli effetti di secoli di deterioramento prima della sua riscoperta. Un sottile ed intelligente gioco di ambiguità che rende uniche queste opere.
Il rapporto tra il carattere eterno della forma classica, perfettamente riprodotta dalla tecnica impeccabile dello scultore, da una parte, e la casualità sempre rinnovata dell’aspetto cangiante del materiale prezioso e inaspettato scelto dall’artista, dall’altra, rende ogni statua di Pelletti una vera opera contemporanea, aiutando così lo spettatore a superare la dicotomia tradizionale tra originale e copia e a ripercorrere a ritroso la storia della scultura e quindi a visitare le collezioni di arte antica con occhi completamente nuovi.